PostMachina e la stratificazione dell’immagine
Beatriz Escribano Belmar
Il 2018 è l’anno che commemora l’ottantesimo anniversario del procedimento indiretto di riproduzione elettrofotografica avvenuto il 22 Ottobre 1938 per mano del procuratore di brevetti e fisico nordamericano Chester Floyd Carlson. In ambito tecnologico e all’interno dei diversi processi di riproduzione, l’arrivo della xerografia, come venne definito questo processo nell’ambito commerciale, permise la riproduzione di una quantità di documenti largamente più vasta di quanto non fosse possibile ipotizzare e non solo. Infatti, divenne anche un mezzo per aggirare diversi controlli permettendo la circolazione di testi che altrimenti non avrebbero potuto essere diffusi in quanto strumenti sovversivi. I precedenti processi di riproduzione erano state le premesse per la creazione e lo sviluppo di un processo di riproduzione automatico, istantaneo, multiplo, rapido ed economico, molto più agile e facile da gestire; tale processo, che consentiva la riproduzione di documenti, era stato lanciato sul mercato nel suo formato automatico con il modello Xerox 914 nel 1959. Tuttavia, in considerazione del fatto che era già possibile la riproduzione di immagini, questo strumento fece sì che si sviluppassero diverse micro-comunità, soprattutto per la creazione di pubblicazioni indipendenti nelle quali autori ed editori erano liberi di distribuire i loro testi utilizzando formati non standard. Per di più fu in grado di attrarre diversi artisti a livello internazionale i quali lo sovvertirono e trasgredirono utilizzandolo come strumento creativo. Di fatto, la “copia”, fino all’arrivo di queste prime tecnologie automatiche dell’immagine, non aveva mai fatto parte del processo artistico né era mai stata direttamente creativa.
Quello che stava accadendo non era altro che il riflesso di alcune delle idee e proposte più significative del pensiero e delle teorie filosofiche che comparvero negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del secolo scorso, perfettamente esemplificati da testi che coincidono con il momento di sviluppo del processo elettrostatico indiretto di Carlson, ad esempio “ Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit “ ( L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), scritto da Walter Benjamin nel 1936 e da “ Il Manifesto del Macchinismo”, scritto dall’artista e teorico italiano Bruno Munari nel 1938, proprio l’anno del brevetto del processo di Carlson.
Entrambi i testi sono esempi chiari e concreti di quello che l’arrivo di questa tecnologia comportava. Nel caso di Benjamin, le sue parole anticiparono quello che sarebbe successo nel campo dell’arte con l’apparizione di opere in cui la riproduzione era un elemento principe, come nella xerografia. Il concetto di aura fu completamente trasformato: si sostituì l’unicità con la molteplicità di esemplari, passando dal “valore di culto” dell’opera unica alla “visualizzazione del valore”, con la conseguente uscita dell’arte dai confini istituzionali. Bruno Munari, che fu utilizzatore diretto e creativo della fotocopiatrice, espose in poche righe i punti fondamentali per la creazione artistica con questa tecnologia, sebbene, nel momento in cui scrisse il suo manifesto, fosse legato all’arte cinetica. Egli sosteneva che l’artista andasse molto al di là della conoscenza tecnica della macchina, comprendendola profondamente ed ottenendo un risultato per il quale la macchina non era stata creata, superando di gran lunga gli standard imposti dall’industria.
Intorno alla creazione artistica con questa tecnologia si organizzarono vari gruppi di artisti veramente impegnati in diversi paesi i quali diedero luogo a quello che si può considerare un movimento artistico chiamato Copy Art il cui unico fine fu la sperimentazione e la creazione con la macchina fotocopiatrice. In questo movimento, che ebbe grande spazio e visibilità, si possono distinguere tre generazioni ben distinte di artisti che lavorarono a livello internazionale, pubblicando diversi testi funzionanti come dichiarazione d’intenti e che si adoperarono per divulgare e difendere queste creazioni da dentro il movimento. In effetti questi manifesti artistici trovarono spazio in cataloghi di mostre, in riflessioni su libri di tecniche della fotocopiatrice o in libri esclusivamente teorici sull’argomento.
In particolare in Italia, questo movimento artistico si è poi sviluppato principalmente in due linee di ricerca che partono da Milano con Bruno Munari di cui, la prima, da Bologna con Pierluigi Vannozzi che ha percorso una linea più fotografica nella Copy Art, seguito da artisti come Giuseppe Denti e Marcello Chiuchiolo. Con una modalità più grafica e legata alla cultura punk, si è espresso Piermario Ciani. La seconda, sempre a Bologna, dedicata alla poetica dell’oggetto, si è sviluppata con Gianni Castagnoli, seguita, tra gli altri, da Luca Pizzorno, Daniele Sasson, Giacomo Spazio e Valeria Melandri. La produzione artistica di gruppi come Xeros Art e degli artisti già citati ha avuto il supporto e la sponsorizzazione di aziende del settore, quali il Centro Stampa Eliorapid e Il Centro Color Copy di Milano, che hanno messo a disposizione le loro macchine.
In Italia la fotocopiatrice era considerata “un mezzo povero” del quale sfruttare l’infedeltà grafica. Per questo ha trovato maggiore sviluppo con la cultura della moda casual e punk, oltre che con il design grafico e la pubblicità, ma è stata anche la “macchina-simbolo” (Branzaglia, 1994) di un periodo di produzione visiva contemporanea, non solo perché ha fatto emergere l’esigenza espressiva di un paio di generazioni più underground, ma anche perché ha introdotto una serie di problematiche della cultura internazionale contemporanea. In Italia, la combinazione con il video e il computer, con la musica e la performance è stata la regola piuttosto che l’eccezione.
Entrando in argomento con la linea di sviluppo seguita da Bruno Munari, per il curatore di questa mostra (l’artista bolognese Pierluigi Vannozzi), il 1984 va considerato come l’anno chiave per l’evoluzione della Copy Art, non solo perché in quell’anno venne inaugurata la mostra “PostMachina” che presentava per la prima volta nello stesso spazio espositivo video, suono, fotografia e opere di Copy Art, ma perché da questa mostra ha preso il nome il gruppo: PostMachina, appunto, che da quel momento è stato protagonista e organizzatore di vari eventi e mostre di Copy Art in Italia e altrove, ponendo le basi per le prime esperienze di Media Art. Tra coloro che in Italia hanno optato per l’uso della fotocopiatrice come strumento artistico, PostMachina ha condotto una ricerca più tecnologica dell’immagine, inizialmente con artisti come Mauro Trebbi, Michele Sigurtà e il già citato Pierluigi Vannozzi, ai quali, successivamente, si sono aggiunti altri creativi, come Fabio Belletti, Marco Bucchieri, Valeria Melandri, Daniele Sasson e Rosario Modica. Tutti loro vantavano già una lunga attività nei settori della fotografia, del video, del computer e della xerografia, ma l’obiettivo principale ( e di fondamentale importanza) che ha avuto la formazione di questo gruppo, è stato proprio quello di sperimentare, attraverso il confronto, questa multidisciplinarietà.
L’origine di questa formazione ha coinciso con la necessità di esplorare nuovi campi nella ricerca artistica. I suoi sforzi si sono concretizzati in una prima rilevante esperienza che ha dato vita alla mostra itinerante “PostMachina” da cui, come già detto, il gruppo ha preso il nome. Il termine “PostMachina” fa riferimento alla creatività in un periodo in cui la tecnologia iniziava ad inondare tutto, e in cui la creazione con la tecnologia era la base per ogni cosa. Allo stesso modo allude al fatto che l’attenzione veniva posta su esperienze artistiche che andavano molto oltre i mezzi e le macchine già esistenti, alla ricerca della pura sperimentazione artistica per la quale le nuove tecnologie costituivano “un trampolino di lancio” (Valtorta, 1984: s/n) verso nuove esperienze.
Nell’ambito della Copy Art, ciò che ha distinto questo gruppo, come precursore di quella che in Italia è considerata Media Art, è il suo riconosciuto contributo al mondo dell’arte contemporanea, sempre attento ai nuovi linguaggi elettronici, alle potenzialità del loro sviluppo tecnologico e al collegamento di diverse discipline. PostMachina ha lavorato con regolarità sull’intercambiabilità dei generi e sull’unità del significato, aree diverse e specificità i cui linguaggi sono soliti coesistere nello stesso lavoro, anche arrivando perfino ad annullare la loro specificità (Minerba, 1989b: 24), le loro caratteristiche, come medium così come affermato anche da Antonio Minerba artista e studioso di questo movimento artistico.
Organizzata presso il Centro Mascarella Arte Ricerca di Bologna nel 1984, “PostMachina” è stata una grande mostra incentrata su una complessa installazione artistica (forse la prima organizzata in una galleria privata), nella quale si sono fuse pratiche artistiche innovatrici. C’erano le immagini autoreferenziali di Marina Arlotta, i tessuti e gli oggetti di Gianni Castagnoli, una serie di analisi astratte di Gabriella Moles, alcuni degli esperimenti pionieristici con la fotocopiatrice di Bruno Munari, gli oggetti simbolici di Luca Pizzorno, il procedimento di ripetizione differente di Pierluigi Vannozzi; questo, per rimanere in ambito italiano. Accanto a questi, altri artisti di livello internazionale utilizzatori della fotocopiatrice: Pati Hill con la sua poetica degli oggetti domestici, Anna Banana, E.F.Higgins III e Buster Cleveland provenienti dalla Mail Art e Ginny Lloyd e Marguerite Seeberger coerenti con il loro stile fotografico. Evergon si serviva della fotocopiatrice per modificare il colore risparmiando sui costi di stampa, Curt Asker e Joerg Wiebeck la usavano come matrice per degenerare l’immagine eliminando la fedeltà policromatica e il pittore Albert Pepermans utilizzava le xerografie come base per la pittura. Al tempo stesso, intorno a questo mezzo e alla ricerca fotografica, venivano confrontate diverse esperienze e organizzati dibattiti di gruppo con la partecipazione di fotografi (Ercole Fava, Marcello Lucadei, Pietro Privitera, Michele Sigurtà, Mauro Trebbi) e veniva proposta dal Gruppo di “Sonorità Prospettiche “ (Franco Masotti, Roberto Masotti, Roberto Taroni, Veniero Rizzardi) una selezione della mostra dallo stesso titolo (Rimini 1982 ) e la installazione multipla computerizzata “Satie dans le futur” di Carlo Cialdo Capelli che realizzava l’esecuzione completa e non stop di “ Vexations” di Erik Satie eseguita da un personal computer (18 ore ). Nella stessa Galleria, il gruppo riproponeva una mostra evento “Hi – Tech Fresco“ concepita e realizzata presso lo Studio Leonardi Di Genova, consistente in un affresco manierista del 700, fotografato e registrato con due videocamere. Queste immagini erano state trasformate, ridipinte elettronicamente e riproposte in mostra. L’installazione mostrava, da un lato, l’affresco originale e, dall’altro, la trasformazione che l’immagine aveva subito mediante i mezzi tecnologici. Il linguaggio antico veniva riprodotto e reinterpretato con un linguaggio moderno giocando con la simultaneità; i due filmati (elaborati in postproduzione) venivano moltiplicati in sei video, sistemati in forma convessa su una parete della Galleria.
In occasione della mostra veniva pubblicato un catalogo al quale avevano collaborato teorici prestigiosi quali Bruno Munari, Bruno D’Amore e Antonio Guzman che, nel 1981, aveva organizzato a Rennes la mostra “Ars + Machina I: Infographismes, Photographismes, Reprographismes”. La prima intenzione dei curatori nell’organizzare la mostra “PostMachina” era stata quella di “creare un’attenzione particolare a determinare esperienze artistiche che partano da una base puramente tecnologica, creata per scopi ed usi completamente diversi” (AA.VV., 1984: s/n)
Si privilegiava un certo grado di sperimentazione del mezzo e, di conseguenza, dei risultati che si sarebbero potuti ottenere dallo stesso; oggi questa operazione si considererebbe una mostra centrata sulla Media Art, realizzata però a metà degli anni Ottanta e con i mezzi che si potevano utilizzare in quel periodo. Era un modo di ripetere esperienze quali la già citata mostra “Ars+ Machina I: Infographismes, Photographismes, Reprographismes”; “Electra. L’électricité et l’électronique dans l’Art au XXe siècle”, organizzata nel 1983 presso il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris; o “Procesos; Cultura y Nuevas Tecnologías” svoltasi nel 1986 presso il Centro de Arte Reina Sofía di Madrid allora appena creato.
Nello stesso anno di PostMachina, venivano organizzati altri eventi simili, con l’utilizzo delle nuove tecnologie, per esempio la mostra “Electrographics” (1984) a Pavia, a cura di Maria Grazia Mattei, il cui scopo era quello di fornire una panoramica della produzione italiana, tedesca e americana di quel tempo. La mostra, uno degli eventi della Festa Nazionale dell’Unità sui Beni Culturali all’interno della rassegna Arte e Nuove Tecnologie, mostrava come verso tali tipi di opere non c’era disinteresse o sottovalutazione rispetto all’arte ufficiale, in quanto esse partivano dalla comprensione della pratica artistica come comunicazione visiva. Già in questa mostra italiana la curatrice distingueva una prima ed una seconda generazione di artisti. La prima esplorava soprattutto il mezzo, le sue possibilità ed i suoi limiti, la trasgressione di norme convenzionali e specifiche. La seconda generazione, seguendo le linee guida di Maria Grazia, giocava di più con l’immediatezza di riproducibilità, in scala 1 a 1, le impronte degli oggetti e dei corpi restituivano un mondo iperrealista che includeva opere di Copy Art e Fax Art. Tra gli altri, partecipavano, per l’Italia, Marina Arlotta, Maurizio Berlincioni, Gianni Castagnoli, Piermario Ciani, Luciano Ferro, Margrit Hoffman, Gabriella Moles, Cinzia Moretti, Bruno Munari, Simo Neri, Achille Parizzi, Luca Pizzorno, Giacomo Spazio, Stefano Tamburini e Pierluigi Vannozzi.
Esperienze analoghe venivano poi rappresentate nelle mostre “Machina” e “Macchinazione”, entrambe tenutesi a Torino, e alla XLII Biennale di Venezia del 1986, dedicata all’arte e alla scienza. La Biennale si divideva in due sezioni: una, dedicata al passato e al presente, la seconda alle scienze esatte- biologia, colore, scienza dell’arte, tecnologia e informatica. All’interno di quest’ultima sezione era stata realizzata una dimostrazione di trasmissione delle immagini per mezzo del telefax, simbolicamente chiamata “Belinographia”.
In seguito il gruppo si era allargato inserendo nuovi artisti ed organizzando altre mostre tra le quali una nuova edizione di “PostMachina” presentata con un testo di Carlo Branzaglia intitolato “Per un’estetica del dopomacchina” nel quale si metteva in evidenza come, lavorando in gruppo, le ricerche si incrociavano, portando ad una sovraesposizione di tecniche che ne accentuavano i caratteri e che si aprivano continuamente alla creazione di nuove forme. A questa mostra partecipavano Fabio Belletti, Marco Bucchieri, Valeria Melandri, Rosario Modica, Daniele Sasson, Mauro Trebbi, Pierluigi Vannozzi, invitati poi a diverse mostre in Italia e all’estero: “Défilé Elettrostatico”, “Xerographica”, presso la Galleria d’Arte Moderna di Forte dei Marmi, ad “Arts &Technology Festival 1985” a Halifax, Nuova Scozia.
Tra l’inverno del 1984 e la primavera del 1985, il Gruppo bolognese aveva organizzato nella sua città 7 mostre, presso la Galleria Il Navile, raccolte nel nuovo progetto dal titolo “ PostMachina 2”. In catalogo testi di Marco Bucchieri, Antonio Faeti e Carlo Gentili. Artisti invitati: Gianni Castagnoli, Piermario Ciani, Giovanotti Mondani Meccanici, Stefano Tamburini, Jean Teulé, Mauro Trebbi e Pierluigi Vannozzi.
La mostra era focalizzata sull’approfondimento degli aspetti caratteristici propri di ciascuna tecnologia e dei suoi limiti particolari. Questi limiti, ed il fatto di sapere che non si può ottenere tutto ciò che è auspicabile, lasciava un terreno fertile al processo artistico. Si proponevano autori che usavano la macchina in modo molto diverso, ma soprattutto diversi nell’importanza e nel significato delle operazioni svolte. Era chiaramente percepibile in Italia quello che sarebbe stato il passaggio dall’oggetto visivo reale all’oggetto iconico sostituendo il materiale dell’oggetto reale con un materiale di struttura diversa. Vannozzi mostrava la fotocopia pura, senza mescolarla ad altri elementi, Castagnoli lo faceva con la moda, Ciani partendo dalla provocazione cromatica con la quale giocava per passare costantemente dalla fotografia alla fotocopia, Trebbi utilizzando gli agenti chimici per mostrare gli effetti elettronici della macchina, Teulé e Tamburini servendosi della macchina da un versante procedurale e non come di uno strumento che produca opere finali, i Giovanotti Mondani Meccanici combinando nei loro “comics” fotografia, fotocopia, computer, suono e rappresentazione scenica.
Praticamente, unica esperienza di questo tipo in Italia, nel 1986, PostMachina si è poi adoperata anche per organizzare una mostra di carattere internazionale “Xerography” alla quale hanno partecipato 45 autori di paesi diversi ma tutti appartenenti all’International Society of Copier Artists ( I.S.C.A.) di New York, in cerca di un riconoscimento internazionale della Copy Art italiana. In occasione di questa mostra presso la Galleria Comunale D’Arte Moderna di Bologna, Pierluigi Capucci aveva invitato il gruppo, in quel momento costituito da Fabio Belletti, Valeria Melandri, Mauro Trebbi e Pierluigi Vannozzi, congiuntamente ad altri esperti, a partecipare ad un seminario sul tema “Applicazioni di tecnologie della luce nel campo dell’espressione visiva”, parte integrante del suo Corso “Struttura della Figurazione”, presso l’Università di Bologna.
PostMachina aveva deciso di collaborare con I.S.C.A. che pubblicava trimestralmente la rivista “I.S.C.A. Quarterly” come testimonianza delle sue attività. Nel corso di questa mostra venivano esposte alcune di queste pubblicazioni oltre ai 45 autori invitati le cui 60 opere mettevano in luce come artisti tanto diversi all’interno di questa Associazione, si fossero organizzati, attratti dalla opportunità di partecipare direttamente alla vita culturale grazie all’utilizzo di strumenti tecnologici. Le opere in mostra erano molto eterogenee, sia per quanto riguardava gli autori, sia rispetto ai contenuti, sebbene tutti fossero uniti da una forte carica ideologica e morale. Esploravano la poetica dell’oggetto di tendenza più pop, utilizzando a questo scopo la tecnica di degenerazione di immagini, il collage, il disegno o la pittura come base per un processo degenerativo, la tecnica del movimento o bougé o perfino l’uso di vari tipi di supporti: dalla carta comune più ordinaria a supporti di incisione molto più potenti. Tra gli artisti: Louise Odes Neaderland, Sarah Jackson, David Bolyard, Judy Seigel, Candy Jernigan, offrivano una visione completa del tipo di lavoro che i membri di questa associazione stavano realizzando in quel periodo.
Nell’ambito di questa collaborazione, I.S.C.A. pubblicava il volume 4 (numero 1) del suo trimestrale nel 1986, con opere della Copy Art italiana tra i cui partecipanti c’erano Vittore Baroni, Fabio Belletti, Marco Bucchieri, Piermario Ciani, Valeria Cesanelli, Glauco Di Sacco, Valeria Melandri, Rosario Modica, Cinzia Moretti, Roberto Pagliara, Mauro Trebbi e Pierluigi Vannozzi. Si confermava così il valore della Copy Art italiana al di fuori del proprio paese.
Per il gruppo italiano PostMachina, uno degli obiettivi principali era focalizzare l’attenzione sul momento di dilatazione che consente il passaggio dalla riproduzione alla produzione e quindi alla verifica dei linguaggi legati alle nuove tecnologie, la trasgressione rispetto all’uso normale della macchina e la riflessione sulla metalinguistica.
Nella ricerca sulla stratificazione dell’immagine delle nuove tecnologie, Fabio Belletti e Pierluigi Vannozzi realizzavano una serie di immagini riunite sotto il titolo “Digital Copy Image“ (1987). Per fare questo, erano partiti dai fotogrammi di due pellicole di Wenders, Lo stato delle cose e Paris-Texas catturati da una telecamera con filtri di colore e poi digitalizzati. Una volta riversate sul computer e visualizzate sul monitor, queste immagini erano poi state fotografate e il risultato era stato rielaborato con la Rank Xerox 1005, dilatandolo per ottenere un effetto visivo di maggior rilievo. Anche qui la stratificazione dei distinti linguaggi proponeva una nuova configurazione dell’immagine di partenza, precisamente grazie al sistema digitale che consente la combinazione di diversi linguaggi tecnologici mediante il procedimento retroalimentario input- output. L’output di uno strumento si trasforma nell’input del successivo ed ogni passaggio coincide con una elaborazione e, conseguentemente, con una fase creativa.
Il gruppo da allora ha sviluppato diverse esperienze con il coinvolgimento di artisti provenienti da diverse specialità ed è stato presente alla prima edizione “Telematic performance”, a cura di Maria Grazia Mattei tenutasi a Pavia in occasione della Festa Nazionale dell’Unità dedicata ai beni culturali. In questo caso, è stato utilizzato il fax per mettersi in contatto con creativi di diverse parti del mondo.
All’interno del territorio italiano PostMachina è stato il gruppo che, tra i primi, è andato verso il digitale, infatti, quasi da subito, ha cominciato a svolgere varie attività di natura multimediale. Fin dal 1986 si era concentrato sulla qualità grafica del digitale, cosa che si era potuta osservare attraverso le creazioni e le proposte dei suoi partecipanti. Pierluigi Vannozzi era transitato dall’interesse per la ripetizione differente nei processi tecnologici di degenerazione alla temporalizzazione del toner nelle macchine a colori digitali, generando effetti di movimento; Valeria Melandri era passata dall’immagine xerografica autoreferenziale alla stratificazione dell’immagine multimediale, al rumore e al pattern che ne derivava. Lo stesso percorso era evidente anche in opere e mostre come: “Hi-Tech fresco”, presso lo Studio Leonardi (1986), “Computer Image” in Santa Maria a Nives nella città di Rimini (1987) e “Iconopathia” al Museo Ken Damy di Brescia (1996). L’immagine veniva studiata nella sua stratificazione e nella codifica-traduzione-codifica in vari media, generando un’immagine nuova grazie al sistema digitale che permetteva la combinazione di diversi linguaggi tecnologici attraverso il sistema di input-output.
L’evoluzione che si stava attuando in Italia verso l’immagine digitale, verso la Media Art, è stata formalizzata da PostMachina grazie a mostre come “Dal Video”, allestita alla Ken Damy Photogallery di Milano ( alla quale hanno preso parte Piermario Ciani, Valeria Melandri, Cinzia Moretti, Mauro Trebbi e Pierluigi Vannozzi). Questi artisti hanno esposto una serie di xerografie ottenute in combinazione con strumenti elettronici e video. Artisti, fotografi, grafici ed illustratori, affascinati dall’uso delle nuove tecnologie digitali, avevano deciso di realizzare questo tipo di creazioni miste.
La fotocopiatrice, sempre legata al supporto fisico materiale-oggettuale a partire da una lettura della luce (in una fase iniziale in forma analogica e, successivamente, a partire dall’introduzione dell’elettronica e dell’informatica in forma digitale), ha rappresentato ed ha permesso di mostrarsi come un banco di prova efficace e fecondo che avrebbe preparato il percorso tecnico, artistico-estetico e concettuale verso la virtualità del segno grafico-visivo, consentendo per la prima volta l’interrelazione tra tecnologie, processi e linguaggi di diversa natura e inaugurando l’attuale carattere interdisciplinare della pratica artistica.
Nel 2010, a Bologna, PostMachina ha curato “Figure elettrostatiche” insieme a Carlo Branzaglia, una mostra che si è occupata del passaggio dell’immagine dalla analogica a quella digitale. Proprio come nella musica si è passati dal vinile al supporto digitale, aprendo il dibattito sulla possibile democratizzazione della musica, dell’autoproduzione, dell’estetizzazione di massa, ecc., così la fotocopiatrice ha subito il medesimo processo di conversione, avendo più o meno effetto in distinte aree geografiche. Tuttavia, in termini tecnologici processuali, la vera rivoluzione per la pratica artistica con questi strumenti, avvenuta alla fine degli anni Ottanta, è stata la possibilità di passare da un’azione rapida sul piatto della fotocopiatrice e dalla sua veloce registrazione, a quella di disporre di un’immagine virtuale sui cui parametri virtuali poter interagire, in anticipo rispetto alla sua formalizzazione oggettiva da parte della macchina. Questa mostra ha evidenziato la linea evolutiva appena descritta, scegliendo tra le opere pionieristiche di Munari e di Hill degli anni Sessanta, dove dominano la riproduzione di oggetti e il movimento, passando attraverso le creazioni degli anni Settanta e Ottanta di artisti come Castagnoli, Ciani, Trebbi e Tamburini, caratterizzati da un’estetica più legata al montaggio delle immagini, fino alle strategie di elaborazione digitale delle immagini di Ciani e Vannozzi, a partire dalla fine degli anni Ottanta.
Questa mostra evidenzia così l’evoluzione dell’immagine digitale xerografica verso le creazioni della grafica digitale e delle attuali produzioni multimediali. In questo percorso verso altri linguaggi digitali, la macchina xerografica ha smesso di essere uno strumento di carattere autonomo per diventare un input-output periferico all’interno della catena di produzione e gestione delle immagini digitali e PostMachina si è occupata della sua materializzazione nelle ricerche pionieristiche, come si può vedere oggi, in questa mostra, secondo la prospettiva offerta dal passare del tempo.
AA.VV. (1984). PostMachina. Bologna: Centro Mascarella Arte-Ricerca (catalogo della mostra collettiva).
Branzaglia, Carlo (1994). “Fotocopie italiane”. Photonews. Quaderni del Museo Ken Damy.
Minerba, Antonio (1989a). “L’immagine stratificata”. Doc Ufficio, 6. Pp. 54-60.
Minerba, Antonio (1989b). “Linguaggi Contemporanei”. Doc Ufficio, 4. Pp. 22-27.
Valtorta, Roberta (1984). “Postmachina. Centro Mascarella arte Ricerca”. Flash Art, 120. s/n.
Beatriz Escribano Belmar
Ricercatore post-dottorato all’università di Castilla-La Mancha (FPI dalla JCCM). Vicedirettrice presso il Museo Internacional de Electrografía (MIDE) a Cuenca (Spagna). Dottorato di ricerca in Arte e Nuove Tecnologie, specialista in Media Art ed Elettrografia artistica.